C’è una qualità particolare nella scrittura di Giuseppe Vetromile che, per chi lo conosce di persona, è anche un tratto distintivo della sua indole e dei suoi comportamenti: l’understatement. Questa parola, che non saprei tradurre esattamente in italiano, indica un “atteggiamento volutamente alieno da enfasi o retorica” e ancora, sempre dal Dizionario Treccani, un’ “intenzionale attenuazione della realtà nella presentazione di un fatto, che viene affermato o descritto non solo senza enfasi o esagerazione ma riducendolo a limiti molto inferiori alla sua reale importanza o gravità, in genere con il risultato di ottenerne per contrasto – suscitando un effetto di ironia – una sottolineatura ancora più efficace”.
Se questo è vero in generale per tutta la produzione poetica
di Vetromile, è ancora più evidente in quest’ultimo libro in cui immediatamente
il poeta si dichiara “libero di volare ma non oltre le vette dei mobili”;
autoironia e avversione per l’autocompiacimento anche nei versi iniziali:
“fogli di carta alla rinfusa in mezzo agli scaffali/ - poesie scritte sul
retro/ naufragate sugli scogli dei concorsi”. Esercizio all’esistenza è un
lungo, pacato discorso sulla pratica consueta del vivere, concepita come un
allenamento costante che il poeta, nello spazio limitato ma protetto della sua
“stanza”, giornalmente fa assieme alla sua compagna più prossima e fidata, la
parola poetica, spesso personificata: “questa casa ha bisogno di te/ mia
poesia”. Si tratta, appunto, non di un discorso sulla poesia ma, piuttosto, di una
conversazione con la poesia riguardo alla sua materia più pregnante: il senso
della vita. Nell’introduzione alla silloge, l’autore fornisce al lettore
indicazioni chiare su quale sia il suo intento poetico e ci guida nella
lettura. Il qui e ora costituiscono il punto di partenza per il “training”
quotidiano che ha l’obiettivo di scongiurare il pericolo più grande per la
nostra integrità individuale e per l’intera civiltà umana: l’inanità, la
rinuncia a dare un senso alla vita, ciò che il poeta chiama “l’inerzia
negativa”. Dichiarando la sua incapacità di capire fino in fondo il mistero “di
questo mondo/ di questo mentre/ di questa stanza”, e assillato come tutti dal
tempo che fugge, il poeta fa leva sui valori dell’umiltà e dell’onestà
intellettuale e si appella alla forza salvifica della poesia come unica via d’uscita
dall’amarezza di un mondo angusto e meschino. La poesia è la manna dal cielo:
“quella parola che ti precipita per terra/ e che ti tiene unito al canto della luna”.
E’ la vera medicina, senza “effetti collaterali”, che ridà vigore ai nostri sogni
e risana le menti. Sono molti i riferimenti, nel libro, all’isolamento e allo
stato psichico di desolata frustrazione indotti dalla pandemia, durante la
quale l’identità è stata messa a dura prova: “qui tutto è ormai deturpato dalla
nostra/ malattia” e “stamattina ho smesso di essere io”. La tentazione di
“chiudere quellacasa” e lasciare il “documento vuoto”, rinunciando
all’esercizio di se stessi e della finzione poetica tiene sospesa la volontà di
dire (“salva/ non salvare/ annulla”) ma, infine, la ragione prevale “per cui la
vita è sempre dentro le ombre” e l’irrinunciabile grazia della poesia prende
forma nel libro che è sotto i nostri occhi e nelle nostre mani.
Nota critica di Irene Sabetta su “Formafluens”, International Literary Magazine, Nuova Serie, ANNO V – N.1 gennaio/aprile 2023 (Direttrice Tiziana Colusso)
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